lunedì 5 agosto 2013

Lezioni di Piano. Architettura vs Urbanistica.

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di Simone Rusci
tratto dal sito web eddyburg.it

Se la progettazione architettonica riesce ad esprimersi in modo più efficace della pianificazione urbanistica, si tratta soprattutto di questioni di linguaggio, o anche in parte di contenuti? Ed è possibile uscire da questa specie di vicolo cieco?

La recente inaugurazione del Quartiere Le Albere a Trento, progettato da Renzo Piano, riporta inevitabilmente a riflettere su di un tema antico quanto attuale: l'intimo, imprescindibile e contrastato rapporto tra urbanistica e architettura. Il nuovo quartiere, come del resto molti altri suoi cugini europei, sembra affermare con forza il fallimento dell'urbanista, almeno nell'accezione canonica invalsa nell'ultimo secolo, e consolidare invece la figura dell'architetto quale soggetto efficace ed unico della trasformazione e progettazione urbana, la vittoria della disciplina architettonica su quella urbanistica.


Gli edifici sono belli, contestualizzati, funzionali, tecnologicamente all'avanguardia, in linea con i più avanzati standard di sostenibilità dei consumi ma sono molto più interessanti, e qui l'oggetto della riflessione, le soluzioni prospettate a scala urbanistica ed urbana: divisione dei flussi carrabili e pedonali, elevata dotazione di standard (nel caso dei parcheggi opportunamente integrati e collocati negli interrati, diversamente peraltro da quanto fatto dallo stesso Renzo Piano nel centro commerciale di Nola), un qualificato e progettato spazio urbano, mixitè di funzioni dove il centro commerciale della grande e media distribuzione trova il modo di coesistere con residenze ed uffici, senza dover essere esiliato in un macro-lotto di periferia circondato da un deserto di parcheggi, insomma la creazione di un pezzo di città e non di una addizione periferica.

Alla base di tutto questo una costruzione architettata, prima che architettonica, del progetto di città, dove le diverse discipline – dall'arredamento all'urbanistica passando per la composizione, la tecnologia e la progettazione ambientale – sono attraversate e sorrette da un'ossatura indispensabile: l'idea di città, ciò che Aldo Rossi definiva il “fatto urbano” (Rossi 1978),

Il quartiere trentino non è certo il primo esempio di un tale atteggiamento, lo stesso Renzo Piano aveva già dimostrato simili capacità nella reinvenzione della Potzdammerplatz a Berlino o nella Cité Internationale di Lione e numerosi potrebbero essere gli analoghi interventi di altri autori sparsi un po' per tutta l'Europa. Esempi iper pubblicati, apprezzati dalla critica come dal grande pubblico, visitati, partecipati, divenuti cartoline dalla città contemporanea, mete turistiche, monumenti creati grazie anche all'accelerazione storica della sub-modernità (Augè). Linguaggi criticabili, perfino in certi casi patologici ma sicuramente compresi.

Dall'altra parte l'urbanistica: avvolta nel groviglio normativo, nei regolamenti perequativi, nella codifica di procedure, nelle zonizzazioni. Un'urbanistica arroccata in un linguaggio di settore, scientifica, parametrizzata, della quale è difficile capire il fine; talmente lontana dalla comunità che è costretta a inventare strumenti normativi per indurre fenomeni di partecipazione che in passato sarebbero stati, al contrario, da contenere in intensità. Un' urbanistica strangolata da una politica matrigna incapace di realizzare una città attraverso una propria idea di città (Rossi). Un'urbanistica difficile da comprendere e ancora più difficile da comunicare.

Viene allora da chiedersi cosa non abbia funzionato, quali siano le motivazioni di una simile alternanza di fortune. Se esse siano di natura ontologica, legate alla categorie fondamentali dei fenomeni, oppure se al contrario debbano essere imputate ad una contingenza, ad un aggrovigliamento evolutivo, ad una errata declinazione della disciplina in rapporto alle esigenze ed alle aspettative della società contemporanea.

La fortuna degli architetti tenderebbe in prima analisi a confermare la natura individuale dei fatti urbani (Rossi), la necessità di operare una scelta demiurgica seguendo percorsi e metodi di natura prettamente artistica. Sarebbe però difficile da giustificare in questa visione - se non come fortunata eccezione - la grande produzione dell'urbanistica che, a partire da dalla metà del 700 fino al movimento moderno, è stata il luogo delle grandi speranze sociali (Benevolo), delle tecniche e delle scienze che incontrandosi hanno dato vita alle grandi vette della disciplina.

È forse più probabile allora che qualcosa non abbia funzionato nel percorso evolutivo, che la strada imboccata ci stia portando agli esiti evolutivi del pavone che sviluppando la sua bellissima coda si è reso facile vittima dei suoi predatori. I problemi di linguaggio, o meglio di comunicazione, che affliggono l'urbanistica e la rendono distante dall'interesse delle masse, potrebbero essere allora ricondotti ad una nuova speciazione che sta interessando la pianificazione, una risuddivisione dei saperi e delle discipline che tendono a specializzarsi ed evolversi secondo metodi, approcci e linguaggi differenti.

Apporti disciplinari parziali, sempre più perfetti quanto più distanti dall'obiettivo ultimo che dovrebbe essere l'uomo e lo spazio entro il quale vive, distanti dall'esperienza sensibile dei non addetti ai lavori. “E' importante soltanto ciò che può essere visto: dunque la singola strada, la singola piazza” affermava più di un secolo fa Camillo Sitte (Sitte).

Il superamento dell'illusione moderna e il successivo riconoscimento della complessità dei fenomeni urbani e territoriali ci ha invece spinti ad una nuova separazione per parti, che possano essere sondate attraverso gli strumenti delle scienze pure e poi ricomposte, per addizione, in un corpo unico, mediante procedure codificate divenute esse stesse più importanti di ciò che legano; la ricerca di una “unità facile”, da ottenersi attraverso un processo esclusivo e non di una “unità difficile” frutto di un processo inclusivo (Venturi).

Ciò che prima era legato da rapporti armonici ed integrati appare oggi come una sovrapposizione di virtuosismi di singoli strumenti in una sinfonia cacofonica di difficile comprensione. Gli strumenti dell'urbanista, affinati e sviluppati scientificamente, divengono in questo quadro il fine e non il mezzo, assumono lo status di discipline autonome e vengono spesso scambiati dal grande pubblico per l'urbanistica “vera”.

Se la figura dell'architetto è ben nota, apprezzata e popolare tanto da essere spesso caricaturizzata (si pensi all'archistar Fuffas di Maurizio Crozza), l'urbanista è qualcuno che stenta a trovare una sua precisa collocazione nell'immaginario collettivo, a cavallo tra fumose visioni di tipo politico-burocratico o scientifico- accademiche.

Da una parte l'urbanista-professionista, incaricato dalla Pubblica Amministrazione di redigere i piani, visto come un legislatore, un produttore di norme edilizie, un politico (o un politicizzato) più che come il progettista della città e del territorio; dall'altra l'accademico, lo scrittore, lo scienziato impegnato nello studio e nella definizione di evoluti sistemi di analisi e di sintesi. Entrambi con linguaggi comunque distanti dai cittadini, dagli abitanti: il primo adoperante il difficile lessico della norma, della giurisprudenza, delle sentenze e delle leggi sovraordinate che sembrano sempre togliergli lo spazio di manovra e il secondo concentrato, spesso, nell'esercizio di quei virtuosismi strumentali e settoriali che non sempre conducono all'armonia; comunicatore di parti di un tutto, apprezzabili solo da esperti. Una bipartizione che del resto si riscontra effettivamente nell'urbanistica contemporanea, dove la pratica ordinaria sembra non comunicare abbastanza con il mondo accademico e viceversa.

Gli urbanisti si comportano insomma come un negoziante che nel vendere un televisore, invece di elogiare la qualità dell'immagine trasmessa, si lanciasse in una dotta disquisizione sulle caratteristiche del silicio con cui sono fatti i micro-chip interni: gli esiti commerciali e l'interesse dell'acquirente non sarebbero troppo diversi da quelli che si riscontrano oggi di fronte alle tematiche urbanistiche.

E forse opportuno allora ricondurre la discussione urbanistica su temi concreti, sul modello di sviluppo della città del futuro e sulle sue sfide - come di recente ha fatto Cino Zucchi intervistato sulle pagine di Repubblica - magari anche sull'utopia (vedi la postilla di Fabrizio Bottini al citato articolo), sulle “singole strade e singole piazze” di Sitte, sullo spettro sensibile entro il quale si muovono - sempre e naturalmente “in variante” - gli architetti. Dimostrare come il rigore e la ricchezza scientifica dei nuovi strumenti di analisi possa incidere, grazie alla sintesi dell'urbanista, sulle persone, sul loro spazio di vita, sulle uguaglianze e differenze di cui parla nel suo ultimo libro Bernardo Secchi (Gregotti, 2013); come l'urbanistica sia il terreno fertile dove far germogliare le diverse discipline, scientifiche, sociali, ambientali e di qualsiasi altra natura, che ne costituiscono le componenti.

Esiste infine una terza spiegazione all'incomunicabilità tra abitanti e urbanisti (ma non ci piace) e cioè che gli spazi pubblici, la città, non sia più così centrale nella formazione civica e politica degli abitanti, che ne sia solo una componente (Amin 2008); che la sfera pubblica possa svilupparsi in luoghi virtuali (Crang, 2000) e che la nostra esperienza collettiva possa evolvere senza luoghi e senza spazio pubblico, senza urbanisti e, forse, senza architetti.

Riferimenti bibliografici

Amin A. (2008), "Collective Culture and Urban Pubblic Space", in Cities, vol. 12, I.
Augè M. (2004), Rovine e Macerie, il senso del tempo, Bollati Boringhieri.
Benevolo L. (1963), Le origini dell'Urbanistica moderna, Laterza.
Crang. M. (2000), "Pubblic Space, Urban Space and Elettronic Space: Would the Real City please Stand Up?" in Urban Studies, vol. 37.
Gregotti V. (2010), Tre forme di architettura mancata, Einaudi.
Gregotti V. (2013) "Città più grandie più ingiuste", Corriere della Sera 03/08/2013 
Moroni S. (2013), La città responsabile, Rinnovamento istituzionale e rinascita civica, Carocci editore.
Piccoli C. (2013) "La città ristretta", intervista a Cino Zucchi, la Repubblica 30/06/2013
Rossi A. (1978), L'architettura della città, Città Studi edizioni. 
Secchi B. (2000), Prima lezione di urbanistica, Laterza.
Secchi B. (2013), La città dei ricchi e la città dei poveri, Laterza.
Sitte C. (1889), Der Stadtebau nach seinen kunsterlischen Grundsatzen, ed. ital. a cura di Luigi Dodi (1953) L'arte di Costruire la città, Vallardi editore.
Venturi R. (1966), Complessità e contraddizione in architettura, Edizioni Dedalo.

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