lunedì 1 settembre 2014

UNITED OF COLORS PANTONE



di Michele SMARGIASSI

«Intramontabile tricolore!» esclamò lo speaker del cinegiornale Incom, ma sul podio Gino Bartali guardava perplesso la sua maglia tricolore di campione d’Italia 1952, borbottando ai giornalisti: «Il verde è diventato più chiaro...». Aveva ragione. Quello era squillante, mentre sul suo primo trofeo, nel 1935, era grigiastro. Ma che importa? Bianco rosso e verde, no? Ma quale rosso, quale bianco, quale verde? L’occhio umano percepisce migliaia di sfumature. Una vale l’altra? Poteva l’eroico Bravehart immolarsi per una bandiera d’un blu qualsiasi? Mai, infatti nel 2003 il parlamento scozzese attribuì per legge, alla sua croce di sant’Andrea, una tonalità precisa. Oggi l’orgogliosa Scozia si commuove solo se sull’asta garrisce il Blu Pantone PMS300. I colori, per Kandinskij «linguaggio universale dell’anima», per secoli hanno sfidato il vocabolario. Come si parlano i colori? Mallarmé li identificava con le vocali, A nera, E bianca, I rossa... Per gli artisti, ogni nuance aveva un passaporto, un certificato Doc: blu di Prussia, terra di Siena, rosso pompeiano... Poi, mezzo secolo fa, qualcuno disse basta con le approssimazioni analogiche. Niente poesia: numeri. Precisi, inconfondibili, ordinabili in righe e colonne. Ora si dice 2767C, 7607C, 1805C.



L’uomo che mise i colori sulla griglia è Lawrence Herbert, nel 1962 comprò la tipografia in cui lavorava part-time da sei anni, la Pantone (nome di fantasia vagamente grecizzante) nel New Jersey, e subito si buttò alla ricerca della soluzione del problema di tutti i tipografi: i clienti che non sono mai soddisfatti dei colori. «Non è il giallo che volevo!». E quale giallo voleva scusi? «Più caldo». Ma quanto più caldo? Un rompicapo, mettersi d’accordo così, a spanne.

Ma conta così tanto una sfumatura? Eccome: chiedete alla Kodak, che fece del suo giallo un marchio di fabbrica, purtroppo ogni tipografia glielo stampava diverso, e i clienti non compravano le scatoline più scure pensando fossero più vecchie. Il colore è un investimento, poche storie. Il viola Cadbury, il verde Tiffany, la suola rossa Loubotin sono coloribrand esclusivi grazie al sistema Pantone. Se puoi battezzare con precisione un colore, puoi anche brevettarlo: così alla fine decise una sentenza della Corte suprema Usa, nel ‘95. Puoi impadronirti di un colore, se puoi definirlo con assoluta precisione.

Bene, Herbert l’aveva capito. Tempo un anno e sfornò la sua prima anagrafe dei colori: allora era un libretto con poche centinaia di tinte numerate. Ciascun numero identificava una precisa miscela dei colori base. Impossibile sbagliare: da allora, i colori si scelgono sul catalogo. Con i volumetti Pantone in mano, la tinta di una copertina di libro o di una tappezzeria si può ordinare anche al telefono, sicuri che sul prodotto finale sarà proprio quella. Era nato il Pantone Color Matching System, il più diffuso sistema per intendersi sui colori, che sbaragliò tutte le altre precedenti e parziali classificazioni, ed ora è utilizzato come lingua cromatica franca dal mondo della moda, del design, dell’editoria.

Oggi la tavolozza Pantone elenca 1757 tinte diverse ma continua ad espandersi, annettendosi i colori digitali, metallici, fluorescenti. “Colori senza compromessi”, è lo slogan. Acquisita dalla multinazionale X-Rite, Pantone si considera «il leader del colore», ci spiega cortesemente Leatrice Eiseman, direttore del Pantone Color Institute: «Noi consentiamo a un’infinità di persone, designer, artisti, clienti, imprenditori, stampatori, di dialogare fra loro in una lingua precisa e accurata». Di più: nelle sue iridescenti pubblicazioni Pantone rilegge la storia dell’arte come successione di tavolozze numerate che «definiscono i colori di un’epoca», e da un quindicennio proclama il «colore dell’anno» come «espressione dei bisogni della società» (se volete saperlo, la miss Colore 2014 è Radiant Orchid, orchidea raggiante, numero 18-3224, che qualcuno di noi, con imperdonabile sciatteria, chiamerebbe magari “lilla”).

Contrariamente a quanto molti credono, Pantone non produce vernici, inchiostri o pastelli (anche se concede il marchio a chi lo fa). Vende solo una tassonomia, un ordine mentale. In forma di dizionari, cartacei e elettronici, pieni di rettangolini colorati e numerati. Il suo core business è sorretto da una convinzione: che i colori siano individui, ciascuno con un distinto carattere, inconfondibili uno con l’altro, identificabili e “comunicabili” con assoluta precisione. Ma secoli di pensiero filosofico ne hanno dubitato. Il rosso che vedo io è quello che vedi tu? Da Poincaré a Cartesio a Goethe la teoria dei colori è stata il banco di prova della domanda epistemologica per eccellenza: la conoscenza che abbiamo del mondo è oggettiva o soggettiva? La risposta di Leatrice Eiseman salta a piè pari il problema: «Il colore è la prima cosa che noti, l’ultima che dimentichi. Produce emozioni e business, e noi lavoriamo per entrambi».

la Repubblica del 31/08/2014

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